L’erba del diavolo

Una piccola, tranquilla (ma non troppo) città lombarda. Un morto eccellente. Un misterioso codice cifrato, dove dietro il nome gentile di un fiore si celano clienti speciali, di una serra speciale. Fiordaliso, oleandro, gelsomino, stramonio… Un commissario meridionale e vedovo, che dialoga con la moglie morta; un sostituto procuratore appassionato di  soldatini e wargames. Entrambi invischiati, contro ogni regola, in amorose questioni con due donne indiziate. Entrambi a gara nella conduzione delle indagini e nella soluzione dell’enigma. Che arriverà, dopo altri morti e altri intrighi, in un crescendo mozzafiato che lascia il lettore spiazzato e con non poco amaro in bocca. Dietro l’apparente calma piatta della vita di provincia, l’autore dipana il filo di una storia avvincente ed inquietante, costellata di continui colpi di scena e ribaltamenti di fronte.  Personaggi indagati e descritti nel profondo,  attori tragicomici di fatti spesso più grandi di loro, storie di ordinaria e straordinaria follia, di corna date e ricevute, soldi sporchi riciclati, traffici loschi di armi e diamanti, collusioni col terrorismo, investimenti spericolati nelle scatole cinesi dell’alta finanza. Sullo sfondo, trasmessi dalla radio e dalla TV, i drammatici avvenimenti internazionali del settembre 2001, il crollo delle torri gemelle, Bin Laden, L’Afghanistan, fanno quasi da coro greco alle tragedie che si consumano in quella quieta cittadina. Dopo il primo, convincente, romanzo Macramè (2002), Antonio Grassi con L’erba del Diavolo ci regala un nuovo, sostanzioso scampolo della sua stoffa migliore di narratore. Una scrittura lineare e chiara, sempre sorretta dalla vivacità della parola e dal bisturi dell’ironia. Aggettivi semplici per concetti profondi. Dialoghi serrati, condotti in scioltezza. Capacità di ‘far vedere i personaggi, i loro pensieri, il loro sentire; di cogliere le inquietudini, i mutamenti, le pulsioni del nostro vivere attuale. Questo è lo stile di Antonio Grassi, che lo colloca in posizione di tutto rispetto vicino ad altri grandi del genere, non solo noir, o neo noir. E scusate se è poco. Simone Bandirali, 2004. Pagine 399 Codice ISBN: 9788890074813 Copertina: grafica Chiara Montani fotografia Giulio Giordano Grafica GM info@graficagm.it

Capitolo primornrn(martedì, 11 settembre 2001)rnrnOsservò la mosca sulla parete e si meravigliò della sua presenza. Il lampadario, finto Settecento con gocce di finto cristallo di Boemia, gli sembrò la cosa meno finta in quella stanza. Quel vorrei ma non posso, appeso al centro del soffitto, si accompagnava con un armadio moderno e dozzinale. Il letto, con testiera di metallo laccato bianco e materasso in gommapiuma, avrebbe procurato mal di schiena a chiunque si fosse sdraiato per più di tre notti. Michele Forgioni si girò verso destra. Pensò che il corpo nudo, sdraiato accanto, non fosse migliore di quello di sua moglie. Si voltò dalla parte opposta. Controllò il Breguet sul comodino. Le cinque. Lo prese. Le cinque! Si alzò di scatto. In quattro anni non aveva mai ritardato di un minuto. Ogni martedì, dalle due alle cinque del pomeriggio, incontrava Elda in quella camera con vista sulla tangenziale. Alle cinque e cinque salutava l’uomo della reception, scortava l’amica nella piazzola davanti al motel, la baciava, aspettava che salisse in macchina e chiudeva la parentesi. La prima volta si era impappinato alla richiesta della carta d’identità. La terza, aveva evitato la scocciatura. La quinta, aveva chiamato l’impiegato per nome. La settima, Pasquale gli aveva rivolto un «tutto bene dottore» che non necessitava riscontro e la decima gli aveva sollecitato consigli per un investimento mobiliare. Lo aveva invitato a lasciar perdere. Appena entrava nell’ascensore, diretto alla stanza 213, Forgioni spegneva il cellulare. Lo riaccendeva tre ore più tardi, mentre percorreva l’itinerario inverso. Tutti però sapevano dove si trovasse, compresa Gaia che lo aveva sposato diciotto anni. Alle cinque e un quarto in punto, seduto nella Volvo, chiamava l’ufficio. Un collaboratore – sempre il medesimo – gli snocciolava gli indici delle Borse e le quotazioni di alcuni titoli. Una sequela di numeri e percentuali, un cocktail di anfetamine dagli effetti collaterali sconosciuti. Impassibile, si limitava a qualche « Sì, sì! », « Uhm, Uhm! ». Se l’interlocutore si innervosiva, aggiungeva: « Tranquillo! Stai tranquillo! » A quell’ora i mercati europei chiudevano e, a New York, Wall Strett aveva aperto da un paio d’ore le contrattazioni. Scorrazzava nei territori della finanza con l’abilità di un cow-boy nelle praterie del West. Spaziava dai microprocessori alle utility, dalla new all’old economy, dalle oscillazioni del dollaro a quelle dello yen e del marco, in attesa di quelle dell’euro. Nel rodeo montava cavalli di qualsiasi provenienza, soprattutto i più rischiosi. I junk bond, azioni spazzatura, gli procuravano l’ebbrezza di un lancio nel vuoto, con la consapevolezza di ignorare la resistenza della fune. Le vendite allo scoperto, le short selling, gli inducevano un effetto tonificante. La galassia dei derivati, deputata a far salire l’adrenalina a mille e il conto in banca più della vincita alla lotteria, ma anche ad aprire meditazioni sul suicidio, costituiva il suo brodo di coltura. Mago nel leveraged buy-out, comperava aziende con prestiti garantiti dall’attività stessa dell’impresa e dai futuri utili, o con la vendita dell’attivo patrimoniale della proprietà acquisita. Utilizzava con flessibilità il concetto e lo adattava alle sue esigenze, un segreto che non aveva svelato a nessuno. In una occasione soltanto lo aveva accennato a Gaia. Finanziava imprese sul territorio, soprattutto bar, ristoranti, discoteche. Non disdegnava il supermercato delle attività immobiliari legate ai piani regolatori, a quelli di recupero, alle finte ristrutturazioni, agli accordi pubblico-privato. Marginale il lato più oscuro del lavoro: i prestiti agli eredi di casate Una volta al mese si recava all’estero e nella sua agenda figuravano gli indirizzi di società sconosciute alla maggioranza dei cittadini. Nella terra di Lombardia, ricca di artigiani, piccole industrie, commercianti e liberi professionisti, intenti a consumare l’esistenza per accumulare ricchezze, la liquidità scorreva come un fiume in piena e aspettava qualcuno che la incanalasse. Michele aveva scelto questo compito. Si rivolgevano a lui industriali del settore metalmeccanico ed alimentare, imprenditori edili, grossisti di abbigliamento, medici, negozianti al minuto. Tra i suoi clienti anche pensionati, ma di quelli che passavano l’inverno al mare. Evitava le vedove con figli e gli insegnanti. Prestava i suoi servigi in base alla simpatia e all’antipatia, all’avidità, all’avarizia, alla prodigalità, alla mancanza di scrupoli davanti alla possibilità di incassare, in poco tempo, un sacco di quattrini di dubbia provenienza, nel solco della logica dei tanti, maledetti e subito, anche se per molte di queste persone imbroccare l’azzardo non modificava la vita. A questo popolo di privilegiati elargiva interessi superiori di almeno tre punti rispetto alla media e offriva l’illusione di giocare a Monopoli con soldi veri. Regalava la sensazione di essere parte di un’élite, informata in anticipo sull’andamento degli affari nel mondo. Un popolo scelto con cura,di gente abile nel proprio mestiere, stimata e irreprensibile, in grado di soddisfare i bisogni primari e quelli superflui, pochi questi ultimi, per assenza di tempo e di fantasia. Un popolo di uomini cornuti per l’impossibilità di dedicarsi alla moglie e di donne invidiose della vicina di casa. Un popolo che si piccava di vedere oltre il confine, ma – al di fuori della professione – non scorgeva una montagna in fondo alla via dell’ufficio. Un popolo che smaniava dalla voglia di evadere, ma non si spostava dalla propria scrivania, o si annoiava a spettegolare, con insofferenza, nei posti reclamizzati nelle riviste patinate o consigliati dagli amici. Un popolo che esibiva l’ultimo acquisto inutile ed eccessivo, ma trendy. Un popolo che discuteva del proprio fisico con il personal trainer e dei radicali liberi con il dietologo. Questo popolo si recava dal barbiere di fiducia, dal sarto di fiducia, dal meccanico di fiducia. Si serviva dal pasticcere di fiducia, dal fruttivendolo di fiducia, dal salumiere di fiducia. Si consigliava con l’avvocato di fiducia, con il commercialista di fiducia, con l’architetto di fiducia. Frequentava la palestra di fiducia, la piscina di fiducia, il ristorante di fiducia. Per tutta questa fiducia pagava tariffe di fiducia, triplicate rispetto a quelle dei comuni mortali. Forgioni, trapezista di fiducia, accontentava questo popolo…