Vernice Fresca

Un fantasma aleggia sulla Terra: lo spettro della contaminazione biologica. La responsabilità della scienza è chiamata in causa nel quarto romanzo di Antonio Grassi che propone con Vernice fresca nuovi inquietanti scenari per il nostro futuro. Se infatti la scienza promette di regalarci utili e strepitose scoperte, è dai potenti della politica e dell’economia che deriva la scelta di una ricerca indirizzata al benessere di tutti, oppure alla catastrofe. Nel libro di Grassi la scienza in questione è la biotecnologia, promossa dall’immaginaria LgB (Life is good Bioresearch), “Moloch padano” di proprietà dei fratelli Tito, Lucio ed Elsa Zanica. A scatenare una sequela di eventi drammatici è la notizia di un presunto incidente di laboratorio occorso alla LgB con conseguente dispersione nell’aria di un virus altamente patogeno. La notizia viene diffusa dal gruppo ambientalista Gst (Gruppo salvaguardia territorio) e dal periodico La Tribuna, quotidiano del borgo a cinquanta chilometri da Milano, “fotocopia di Crema”, dove risiede il protagonista Duilio Cattaneo, uomo delle operazioni più delicate della LgB.L’intreccio della vicenda, ambientata nell’oggi, presto si rivela più intricato di un dedalo e più pericoloso del salto da un aereo senza paracadute; la trama si dipana grazie all’intervento di attori le cui vite si scontrano e si minacciano vicendevolmente. I personaggi del romanzo aggrediscono il lettore con l’ambiguità del loro essere reali, con tutte le ambizioni di potere, sesso, denaro, forse amore, e con gli scheletri nell’armadio caratteristici di un’umanità corrotta da più di un peccato originale e ansiosa di non essere risucchiata nell’oblio.Il tradimento arriva da chi ci sta molto vicino e l’omicidio è decretato da chi sta molto in alto. Co-protagonisti del romanzo sono gli ideali (tutti?) traditi del ’68 e il mondo della provincia, all’interno del quale l’Autore si muove agilmente, smascherandone intrighi, contraddizioni, ipocriti formalismi e supponenza intellettuale. Niente di scontato, niente di rassicurante, come Grassi ci ha abituato a pensare anche nella sua precedente produzione letteraria. Il carattere scattante, nervoso, rapido del linguaggio – ricco di ossimori e metafore che spesso riportano i concetti dalle altezze del pensiero alla concretezza della nostra animalesca fragilità – rende la lettura onnivora, ansiosa di conoscere l’esito conclusivo, anche se, come nella vita reale, il passato non è mai definitivamente chiuso alle nostre spalle. 2013. Pagine 489. Codice ISBN: 9788890093838

Prologo

Dall’inizio degli anni Settanta fino ai primi anni Novanta l’Unione Sovietica ha finanziato Biopreparat, il più massiccio e segreto progetto al mondo finalizzato alla guerra biologica.

Al programma Biopreparat hanno lavorato migliaia di persone nella ricerca, sviluppo e produzione di agenti patogeni responsabili di vaiolo, peste, encefalomielite equina venezuelana, encefalite giapponese, morva, brucellosi, febbre emorragica argentina, febbre emorragica boliviana, febbre gialla, febbre di Lassa. Tra gli scopi di Biopreparat la realizzazione di ceppi di Antrace, Marburg, Ebola antibioticoresistenti e inibitori del sistema immunitario.
Nel Kazakistan si trovavano alcuni dei presìdi più avanzati del programma Biopreparat, tra questi l’Istituto scientifico sperimentale di Stepnogorsk e il laboratorio dell’isola di Vozrozhdeniye nel Mare d’Aral, al confine con l’Uzbekistan.
I segreti del progetto Biopreparat sono stati svelati da alcuni transfughi fuggiti in Occidente dopo la dissoluzione dell’impero sovietico. Il più noto fra loro è Kanatzhan Alibekov, vicepresidente di Biopreparat, arrivato negli Stati Uniti nel 1992, diventato Ken Alibek e poi consulente per la biodifesa del governo americano.
Secondo una fonte autorevole, citata da Alibek in un’intervista nel 2005, almeno diecimila scienziati erano in grado di realizzare armi batteriologiche e un milione di individui capaci di costruire una bomba biologica.

Capitolo 1

Giovedì 22 novembre, sera

Duilio Cattaneo aveva cenato in fretta, indossato trench e cappello, accarezzato Olga sulla nuca e ottenuto indifferenza. Aveva tentato di avvicinarle la testa alla spalla, ma lei si era ritratta. Era uscito. Sul pianerottolo aveva atteso alcuni secondi. Era sceso dalle scale, l’umore incarognito dal clima autunnale. Poche linee di febbre, gola arrossata, raffreddore, malesseri non avevano mai impedito a Olga di accompagnarlo a un appuntamento culturale, mondano, culinario o di altro tipo. Si era mosso con mezz’ora d’anticipo, preoccupato di restare in piedi in una sala con un’ottantina di posti a sedere. Pochi, per un professore di chiara fama in una città che trasformava in evento qualsiasi manifestazione con un forestiero, anche sconosciuto o scartina. La biblioteca distava dai dieci ai quindici minuti di passo svelto, dipendeva dal percorso. Aveva camminato rasente i muri di vie secondarie del centro storico. Strette, poco illuminate, deserte, s’incuneavano tra costruzioni antiche, alcune bisognose di restauro. Aveva inciampato in una buca, imprecato per i cubetti di porfido mancanti, maledetto la pioggia e la pavimentazione scivolosa, criticato l’amministrazione comunale per l’incuria. Si era pentito d’avere rinunciato all’ombrello. In prossimità di un edificio, definito dai depliant della Pro loco una delle più significative costruzioni del XIV secolo della provincia, una goccia d’acqua era caduta sugli occhiali. Si era fermato. Aveva brontolato e asciugato le lenti con il fazzoletto. In quel palazzo, cinquecento anni prima, nelle settimane precedenti la battaglia di Agnadello, aveva soggiornato Citolo da Perugia, capitano di ventura al soldo di Venezia, difensore di Padova e saccheggiatore della campagna lodigiana. Combattenti e condottieri di qualsiasi colore e foggia lo affascinavano, passione nata con i racconti del nonno e inalterata negli anni. Lo stabile, deturpato da graffiti contro una cava ecomostro, incuteva rispetto. Al contrario, gli autori dello scempio meritavano disprezzo. L’aveva sfiorato il dubbio d’essere nato nel secolo sbagliato. La città, triste, favoriva spinte centrifughe. Stimolava la fantasia. Induceva a vagabondare, a concentrarsi su se stessi, a mollare ogni cosa. Invogliava a scomparire, immaginarsi nella Legione straniera o capitano di ventura un giorno qui, uno là. Anche lui Citolo da Perugia. Solidale con i disertori, criticava chi scriveva, cantava, filmava fughe romantiche, esaltanti, avventurose per sentito dire. Storie mai vissute. Gratificanti per postulato. A lieto fine per contratto. Rientrava tra i vorrei, ma non posso. Tra i vigliacchi per carriera, età e altre mille fesserie. Aveva rinunciato alla coerenza con giustificazioni inoppugnabili nella forma, non nella sostanza. Aveva rimesso gli occhiali. Montatura nera, lenti fotocromatiche, dimenticati spesso in ufficio, primo e più evidente sintomo di un’andropausa incipiente, li portava da un paio d’anni. La pioggia era aumentata. Aveva allungato il passo. Novembre era il mese peggiore del calendario. Il più opprimente, con la festa dei defunti e la nebbia. Lo smog. Con le polveri sottili che incombevano sulla città, come la falce della morte sui manifesti dei film dell’orrore. Entravano negli alveoli e toglievano il fiato…